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Premio internazionale di letteratura Città di Como

Articoli su tre grandi fotografi.

I ragazzi di 5° del Liceo Artistico Centro Studi Casnati, hanno fatto una ricerca su tre figure molto importanti nell’ambito della fotografa: Richard Avedon, Robert Frank e Lee Friedlander.

Lee Friendlander: “L’ombra di un fotografo interessante”.

Lee Friedlander, nato nel 1934 ad Aberdeen, Washington, è probabilmente uno dei fotografi più fotografi che abbiano mai messo piede in questo mondo.
Nel corso della sua vita è sempre stato accompagnato da questo mezzo. Figlio di un fotografo, all’età di cinque anni inizia a seguire il padre in negozio. È proprio lì che rimarrà folgorato dalla fotografia, dalla magia di veder un’immagine comparire e nascere dalle lunghe strisce di pellicola fotografica. La magia in lui è nata: non avrebbe mai più smesso.
Prova quindi a sfogare questa sua “malattia” lavorando in un negozio di fotografia negli anni del liceo e frequentando poi un corso di fotografia alla Art Center School of Design di Los Angeles, purtroppo i corsi lo annoiarono e ben presto finì per cercare altri stimoli ed altri soggetti.

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Dagli anni 50’ agli anni 70’ si dedica alla fotografia freelance nella fervente New York, capitale americana del foto-giornalismo diffuso dalle riviste “Life” e il “New York Daily” che spiccano su ogni scaffale. Questo ambiente gli procura variati ingaggi che lo fanno imbattere in centinaia di soggetti differenti come bambini, feste, celebrità e persino rodei. Ciò che è importante è che ognuno di questi lavori, anche il più noioso ed ordinario, mette alla prova le sue qualità elevandole a livelli altissimi.
Friedlander è noto per le sue fotografie ritraenti soggetti della vita quotidiana che lo hanno consacrato come celebre fotografo. Sono proprio questi soggetti apparentemente banali che lo sottopongono anche a svariate critiche di sguardi che non capiscono cosa ci sia di straordinario nell’ordinarietà da lui colta. Se nella sua contemporaneità spiccano fotografi dello spessore di Nan Goldin, che fotografa la crudezza della vita riflessa sul suo gruppo di amici o Robert Frank con la sua forte critica sociale in ‘’The Americans’’, i suoi soggetti possono risultare troppo banali o infantili. Friedlander, per quanto leggero possa apparire nelle sue tematiche, ha la grandezza di rendere la materia quotidiana un evento straordinario e unico. Collega punti che non vedremo normalmente se non ce li facesse notare attraverso la fotografia. Qualsiasi altro fotografo camminerebbe due passi più in là per togliere un palo affinché non disturbi la fotografia, lui invece fa due passi indietro per includerlo in maniera armoniosa. Se si togliesse un solo elemento le sue fotografie crollerebbero. Sono come dei pattern formati da elementi naturali.

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Le sue fotografie più celebri nell’immaginario comune sono i suoi ritratti ed autoritratti in strada.
Spesso Friedlander viene associato solamente ad una delle sue più evidenti caratteristiche: l’inserimento di lui stesso all’interno dello scatto utilizzando la propria ombra come espediente.
Ciò che molti non conoscono invece sono i ritratti del mondo Jazz che fece fin da ragazzo quando la musica e la fotografia sono cresciuti di pari passo dentro di lui. Viene successivamente ingaggiato dall’Atlantic Records per fare le fotografie per le copertine di vinili, e per mettere gli artisti a proprio agio andava a trovarli a casa loro. Miles Davis fu uno dei tanti famosi jazzisti che ritrasse.

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Insieme a Gary Winogrand, la sua filosofia esprime l’impossibilità di catturare la realtà nella sua interezza. Assistono ad un progresso continuo che non poteva essere rallentato e ciò che possono fare è limitarsi a cogliere quanto più possibile. Preso da questa foga, Friedlander continua a scattare per più di sessant’anni arrivando ad una quantità di immagini impossibili da catalogare.
Ha sempre un’invidiabile costanza nella sua professione. Fotografa ogni giorno con la stessa fotocamera, una Leica con un’ottica 35mm, grandangolare per cogliere quanto più possibile per includere quanto più possibile all’interno dell’inquadratura. Uno dei suoi numerosi insegnamenti ci spiega che utilizzare sempre la stessa fotocamera rende consapevoli di tutte le sue possibilità e fa aumentare la sorpresa per qualcosa di inaspettato e sconosciuto.
Friedlander espone per la prima volta al MOMA alla mostra ‘’New Documents’’, con Jonny Winogrand e Diane Arbus e nel 2005 lo stesso museo gli dedicò la più grande retrospettiva mai concessa ad un fotografo.
Ci vogliono otto anni ad organizzare la sua mostra, ed una volta al mese il curatore Peter Galassi, si reca a casa sua a parlare dell’esposizione. Lui gli dice che era stufo di rivedere i suoi lavori, che vuole essere sorpreso, dandogli il compito assoluto di sistemare le sue fotografie.
Galassi ricopre quindi le pareti del suo ufficio con più di mille fotografie di Friedlander formato post-it cambiandole continuamente per cercare di strutturare tutta quanta la mostra. È difficile racchiudere l’opera di Friedlander in delle serie precise. Spesso dopo la pubblicazione di un catalogo, come ad esempio ‘’Self Portrait’’ del 1970, tornava a distanza di anni proponendo nuovi contenuti inerenti quel tema. Alla fine, dopo aver visto l’associazione fatta da Peter Galassi, Friedlander alza lo sguardo e gli dice ‘’sembra proprio un fotografo interessante.’’ Perché lo è: è stato in grado in oltre 60 anni di fotografia di scattare rimanendo sempre fedele al suo stile. Fece le stesse fotografie per anni, senza mai effettivamente fare le stesse fotografie.
Fonti:
https://theculturetrip.com/north-america/usa/washington/articles/lee-friedlander-composingthereal/
http://erickimphotography.com/blog/2013/03/29/10-lessons-lee-friedlander-has-taughtmeabout-
street-photography/
‘’Photography after Frank’’

Di Justine Knuchel e Martina Sestito

 

Richard Avedon:

Richard_Avedon_2 New York, 15 maggio 1923 – San Antonio, 1 ottobre 2004.
Richard Avedon è stato un fotografo e ritrattista statunitense, celebre per i suoi innumerevoli ritratti in bianco e nero. Lavorò in vari campi, dal reportage degli orfani di Danang durante la guerra del Vietnam alla moda, fino ai ritratti di celebrità quali Marilyn Monroe, Janis Joplin, Brigitte Bardot, Andy Warhol e Sophia Loren.
Nel 1942 abbandonò gli studi arruolandosi come fotografo nella Marina Militare, avendo così modo di girare per il mondo e fare varie esperienze anche nelle situazioni più difficili. Profondamente colpito dalle fotografie del celebre fotografo ungherese Mukancsi, al suo ritorno in America si diede da fare per affinare le sue competenze tecniche. Dopo la dura ma fruttuosa gavetta nell’esercito, alla fine della Seconda Guerra Mondiale divenne fotografo professionista, divenendo aiuto fotografo in uno studio privato per poi collaborare anche con una rivista, “The Elm”.
Negli anni ’40 seguì un corso alla New School for Social Research tenuto da Alexy Brodovitch, direttore di Harper’s Bazaar. Nel 1944 riuscì invece ad inserirsi all’interno del gruppo fotografico della stessa rivista di moda, rimanendovi per dodici anni cambiando il concetto della fotografia di moda. L’inserimento di Avedon in tale mondo avvenne grazie all’ammirazione che Brodovitch ebbe nello sfogliare il primo libro pubblicitario di Avedon, “Observation”, pubblicato nel 1959 e contenente le sue immagini unite ai commenti di Truman Capote.
In seguito Avedon lavorò anche per Vogue, Life, Mademoiselle, Gianni Versace, Jil Sander, Hugo Boss, Calvin Klein, Christian Dior e Clairol, specializzandosi nei ritratti. Nel 1961 divenne direttore artistico di Harper’s Bazaar.
Marvin Israel fu un’altra figura fondamentale per Avedon e per la realizzazione del suo secondo libro, “Nothing Personal” del 1963, le cui fotografie sono accompagnate dal commento di James Baldwin. Tale libro fu frutto dell’esperienza vissuta negli Stati del Sud e in cui emerge la presa di posizione politica ed etica, con la tendenza a strutturare ogni lavoro come fosse una storia.
Il 22 novembre 1963, Avedon realizzò una serie di fotografie a Times Square rappresentanti varie persone intente a leggere il giornale che riporta la notizia dell’assassinio di Kennedy.
Nei primi anni ’70, insieme alla celebre fotografa Diane Arbus, Avedon pubblicò un libro su “Alice nel paese delle meraviglie” nel quale le fotografie hanno un aspetto teatrale per la sequenzialità e gestualità studiata dei personaggi fotografati.
Nel 1965 passò da Harper’s Bazaar a Vogue. Dal 1979 al 1985 eseguì numerosi ritratti di vagabondi e disadattati nel West americano, definiti però offensivi per gli abitanti di quelle regioni. Tale lavoro prese il nome di “In the American West”, infrangendo così il mito del West stelle e strisce e focalizzando l’attenzione su minatori, braccianti, piccoli impiegati e disoccupati. Essa è una delle tante realtà che Avedon decise di documentare; tra
queste vi è anche una serie dedicata ai malati di mente del Louisiana State Hospital e una sequenza sulle vittime del napalm in Vietnam.
Nel 1974 espose al museo d’arte moderna di New York (MOMA) alcuni ritratti di suo padre divorato dal cancro, un’intima testimonianza del rapporto padre-figlio. Collaborò anche con altre riviste prestigiose: The New Yorker e Rolling Stone.
Nel 1995 e nel 1997 realizzò le edizioni del prestigioso calendario Pirelli.
Nel capodanno del 1989, Avedon si recò a Berlino vicino alla Porta di Brandeburgo in occasione della caduta del muro, mostrando ancora una volta la sua volontà di immortalare altro oltre al mondo della moda (per cui è principalmente conosciuto), facendo diventare il suo lavoro anche uno strumento sensibile per capire mutamenti politici, risvolti psicologici o filosofici. Tuttavia lo stesso Avedon ha sottolineato, da intellettuale della fotografia qual è, il ruolo di elaborazione che svolge il fare stesso della fotografi, un luogo che non rappresenta mai la “verità”. Le sue stesse fotografie sono un mirabile risultato di pensiero ed elaborazione e quasi mai si affidano al caso.
Una delle sue fotografie più famose, Dovima, ad esempio, ritrae una modella che indossa un abito da sera di Dior in una posa estremamente innaturale in mezzo a due elefanti: venne scattata a Parigi nel 1955 e rappresenta il massimo dell’artificio.
Altri suoi celebri lavori sono i già citati ritratti di artisti e personaggi famosi, coì come le serie scattate alla gente comune e all’interno di un ospedale psichiatrico, fotografie che mostrano la grandezza artistica di Avedon, a cui è stata dedicata una mostra al Metropolitan Museum di New York.
Ottantunenne ancora in attività, mentre stava realizzando un servizio fotografico in vista delle elezioni presidenziali americane per conto del “New Yorker”, Avedon venne colpito da un ictus cerebrale e l’1 ottobre 2004 morì in un ospedale di San Antonio in Texas, a soli due mesi dalla scomparsa di un altro grande maestro della fotografia, Henri Cartier-Bresson.
Le opere di Avedon arricchiscono le collezioni del Museum of Modern Art e del Metropolitan Museum of Art di New York, del Centre Georges Pompidou di Parigi e di molti altri musei ed esposizioni in tutto il mondo.

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Scopritore di icone femminili che hanno segnato gli immaginari di intere generazioni, come Veruschka, Twiggy e Lauren Hutton, il fotografo americano realizzò ritratti anche di numerose star del cinema come Katherine Hepburn, Humphrey Bogart, Brigitte Bardot, Audrey Hepburn, Marilyn
Monroe, Buster Keaton, Charles Chaplin e altre personalità del calibro di Karen Blixen, Truman Capote, Henry Kissinger, Dwight D. Eisenhower, Edward Kennedy, The Beatles, Andy Warhol e Francis Bacon.

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I suoi ritratti non sono semplice frutto dell’osservazione, bensì rappresentano atti creativi in cui la personalità forte e complessa di Avedon è riuscita a cogliere diverse e molteplici sfaccettature di un soggetto. Noto per il suo proverbiale distacco, Avedon non cercava mai un rapporto umano, mantenendo una distanza che talvolta appariva crudele, asettica e quasi ostile. A questo riguardo il celebre “Sia clemente con me” pronunciato da Henry Kissinger prima di essere fotografato.
Avedon, come già citato in precedenza, rivoluzionò la fotografia di moda del tempo, tralasciando le pose statiche per introdurre uno stile giovane e anticonformista. Egli si lasciò ispirare dal fotografo ungherese Martin Munkacsi, decidendo dunque di portare le sue modelle fuori dallo studio e
realizzando ritratti “en plein air”, giocando con il movimento e le pose. Sullo sfondo di un’affascinante Parigi, pervasa da una malinconia post bellica, Avedon catturò i movimenti liberatori di ciascuna delle personalità delle modelle.

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Maniaco della perfezione, il fotografo americano poteva scattare interi rullini prima di realizzareuna fotografia che egli potesse considerare buona. Fu proprio Avedon ad aver dato al soggetto una centralità indiscussa, oltre al fatto che i suoi scatti si caratterizzano per compostezza, perfezione formale, intensità e allo stesso tempo ironia e leggerezza. Da una fotografia di moda in esterno, negli ultimi anni passò dunque ad una sperimentazione in studio, costruendo immagini che isolano il soggetto dall’ambiente e ne esaltano la vitalità contro uno sfondo neutro, grazie alla luce fredda e calibrata del flash.
Attraverso il suo talento e la sua incredibile abilità nel passare da un genere all’altro, Avedon rappresenta un pilastro della storia della fotografia. I suoi scatti, seppur meticolosamente costruiti, riescono sempre a comunicare qualcosa allo spettatore ed esprimono la grandezza inarrivabile di questo artista capace di immortalare modelle oppure scene di vita in modo assolutamente originale.
Una delle numerose innovazioni apportate da Avedon è stata quella di aver dato pari dignità sia alle
immagini “frivole” della moda sia alle immagini “impegnate” che colgono l’attualità.

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Di Chiara Tagliabue e Alessandra Fattorini

 

Robert Louise Frank: 6.339 km di storia fotografica

Robert Frank nasce nasce a Zurigo il 9 Novembre 1924 in una famiglia di origini ebraiche.
La sua passione per la fotografia, nasce grazie ad una vincita al gioco d’azzardo di una semplice macchina fotografica da 35mm. Dal 1941 al 1944 inizia a lavorare come assistente fotografo.
Nel 1946 realizza la sua prima pubblicazione, alla quale da il titolo di “40 Fotos”. Nel 1947 lascia l’Europa e si trasferisce negli Stati Uniti.
Qui incontra Alexey Brodovitch, il quale lo ingaggia come fotografo di moda per “Harper’s Bazaar”.
Nel 1950 Frank si è gia affermato come fotografo ed Edward Steichen include alcune delle sue migliori fotografie nella mostra “51 American Photographers” allestita al Museum of Modern Art di New York e poi all’interno della mostra “The Family of Man” del 1955.
Tra il 1952 e il 1953 continua a viaggiare per l’Europa, in veste di reporter, tra Parigi, Londra, il Galles, la Spagna e la Svizzera. In questo periodo comincia a lavorare sempre più seriamente come fotogiornalista freelance.
Dal 1955 al 1956 viaggia per tutti gli Stati Uniti, riuscendo ad scattare migliaia di fotografie.
Nel 1958 Robert Delpire pubblica a Parigi “Les Américains”, una selezione di 83 scatti tratte dal viaggio compiuto da Frank. L’anno successivo la Grove Press lo ripubblica negli Stati Uniti col titolo “The Americans”.

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Frank viene a contatto con i principali esponenti della nuova generazione letteraria e artistica americana, soprattutto con gli esponenti della “Beat Generation” in particolare con lo scrittore Jack Kerouac, con il quale collaborerà molte volte. Kerouac ha scritto l’introduzione a “The Americans”.       Frank con questo libro ha ben rappresentato l’anima inquieta dell’America della Beat Generation ed è stato considerato da molti fotografi una vera opera di introduzione per la fotografia americana.
Nelle sue fotografie compaiono spesso alcuni simboli americani tra cui la bandiera. A lui non interessava mostrare la bellezza, ma la realtà anche se
non sempre gradevole. Infatti mostrando i lati più tristi del paese riscosse giudizi negativi negli Stati Uniti.
Negli anni Sessanta, nonostante il crescente successo dei suoi lavori in ambito fotografico, Frank abbandona la fotografia per dedicarsi completamente alla realizzazione di film. Il suo era un tipo di cinema pieno di tensioni e tematiche strettamente private e introspettive, un esempio è “Conversations in Vermont”, del 1969.
Dopo la perdita di sua figlia Andrea, Frank ricomincia a riutilizzare la macchina fotografica. Questo tipo di fotografia è però lontana dai reportage precedenti. Utilizza collage, vecchie fotografie, polaroid, scrivendo, graffiando, incidendo direttamente sul lato sensibile della pellicola.
Ad oggi la maggior parte dei suoi lavori si possono trovare all’interno del “National Gallery of Art di Washington”.
Robert Frank si lega al racconto per immagini, poiché lui tramite il suo stile e le sue fotografie vuole raccontare la storia di una nazione. Personalmente lo riteniamo un ottimo fotoreporter poiché, non ha avuto paura di mostrare anche lati negativi di una nazione che tutt’oggi riteniamo un isola felice. Ed è per questo che Frank rimane e rimarrà uno dei migliori fotografi della storia mai esistiti.

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Di Emanuele D’Amato e Luca Travaglini

 

 

 

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