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Premio internazionale di letteratura Città di Como

Articolo su tre grandi fotografi (2°)

I ragazzi di 5° del Liceo Artistico Centro Studi Casnati, hanno fatto una ricerca su tre figure molto importanti nell’ambito della fotografa: Garry Winogrand, Diane Arbus e Ralph Eugene Meatyard.

Garry Winogrand:

“Una fotografia è l’illusione di una descrizione letterale di come la macchina ha visto una porzione di tempo e di spazio. Una fotografia può solo mostrare come la macchina ha visto ciò che è stato fotografato. Oppure come la macchina ha visto la porzione di spazio e di tempo responsabili dell’aspetto della fotografia. Oppure diciamo, una fotografia non deve essere in nessun modo precisa (tranne il fatto che è l’illusione di una descrizione letterale). Oppure, non ci sono regole di composizione o struttura esterne, astratte o predefinite che possono essere applicate alla fotografia. Mi piace pensare che quando si fotografa si debbano rispettare due cose. Rispettare il mezzo, lasciandogli fare ciò che meglio sa fare, descrivere. Rispettare il soggetto, descrivendolo com’è. Una fotografia deve essere responsabile di entrambe le cose. Io fotografo per vedere come sono le cose dopo che sono state fotografate”.

Nasce a New York il 14 gennaio 1928 e muore di cancro, in Messico il 19 marzo del 1984.       Inizialmente frequentò gli studi di pittura e fotografia alla Columbia University di New York, per poi seguire un corso di fotogiornalismo presso la New School for Social Research. Fino a seguire negli anni successivi le lezioni di fotografia presso l’università del Texas di Austin e l’Institute of Design di Chicago.

Gary Winogrand è stato un grande fotografo statunitense, il quale ci ha lasciato ben 2.500 rullini non sviluppati e 4.100 sviluppati e mai stampati, circa 250.000 fotografie che non vide mai e che probabilmente non avrebbe mai visto neanche se fosse vissuto altri vent’anni.                              Invece di street-­photographer egli preferiva esser definito uno studioso dell’America e infatti, si ispirò alla fotografia sociale di Walker Evans e Robert Frank, con uno sguardo più vitale e gioioso.                   La fotografia di Winogrand era una sofisticata osservazione casuale della vita quotidiana, fatti di esposizioni inclinate e giochi di parole visivi. Lui stesso diceva “fotografo per vedere ciò che il mondo appare nelle mie fotografie.”

Winogrand non è un ottimo fotografo solo per quanto riguarda la tecnica, ma è un occhio estremamente attento nel cogliere un soggetto, in sè non pienamente apprezzabile, rendendolo meraviglioso. Esempio concreto ne sono le donne, da lui fotografate tra il 1928 e il 1984. Egli ha ritratto per strada, di sfuggita, quasi per caso queste donne che non sono belle in se stesse, ma sono belle attraverso l’obiettivo. Da una parte, imperfette, strane, scomposte, persino con un che di mostruoso a volte. Dall’altra parte, belle come solo una donna può essere agli occhi di un uomo. Le sue donne diventarono la dichiarazione di amore e libertà cui l’immediatezza del grandangolo e la sintesi del bianco e nero donano una forza e uno stile che hanno fatto la scuola Se l’universo femminile da lui registrato con ironia e obiettività è così suggestivo, altrettanto ne sono gli scatti di cronaca quotidiana della vita metropolitana americana del 1960, specialmente a New York, città in cui è nato e vissuto a lungo, usando una macchina fotografica rapida a telemetro Leica M4, con lenti grandangolari e messa a fuoco manuale.

La sua prima esposizione rilevante si tenne nel 1963 al Museum of Modern Art di New York; nel 1966 espose le sue foto all’interno della mostra Howard a social landscape alla George Eastman House di Rochester con Friedlander.

Garry Winogrand fotografava “per vedere a cosa somigliavano le cose una volta fotografate.”

Non fotografava a progetto, anzi egli rifiutava l’intellettualizzazione del proprio lavoro. Affermava che per descrivere uno stato d’animo, bisognasse cogliere l’attimo, infatti ammirò molto Henri Cartier-Bresson per la mancanza di progettazione del soggetto. Egli fotografava la vita davanti a se con il suo stile unico, pieno di eleganza, vitalità, umorismo, con l’utilizzo di particolari inquadrature, parti di immagini sovrapposte o messe a fuoco volutamente imprecise.

Ha contribuito alla creazione di un mito, un immenso archivio di immagini che raccontano la sua New York e il Bronx dagli anni 60’ e poi Los Angeles dagli anni 70’. Istantanee che senza costruzioni colgono attimi meravigliosi, con scatti di vita vissuta e soggetti di una strana bellezza, mista a ironia, che racconta un mondo fragile ed imperfetto.

“Negli ultimi dieci anni una nuova generazione di fotografi ha spostato l’approccio documentario verso altri fini: il loro obiettivo non è quello di dare forma alla vita, ma di conoscerla. Il loro lavoro ha una simpatia -­quasi un affetto -­ per le imperfezioni e le fragilità della società. A loro piace il mondo reale, nonostante i suoi orrori, come fonte di meraviglia e fascino e apprezzano il valore -­ non meno prezioso -­ dell’irrazionale”. ‐ John Szarkowski

Los Angeles, 1980-1983.

 

New York, 1962.

New York’s World Fair, 1964.

Di: Mondelli e Priante

 

Diane Arbus: “Fotografa di mostri”. Vita e curiosità della fotografa dall’occhio “diverso”.

così Diane Nemerov, nota come Diane Arbus, definiva i soggetti scelti per i propri scatti.

Nasce nel marzo 1923 a New York da una ricca famiglia proprietaria di una catena di grandi magazzini Russek’s e si sposerà molto giovane, nel 1941, con Allan Arbus, per il quale rinuncerà a frequentare l’università e con cui collaborerà a lungo nel campo fotografico. Il loro primo lavoro è un servizio pubblicitario per la catena del padre e dopo l’esperienza di Allan come fotografo dell’esercito nella Seconda Guerra Mondiale, i due si dedicher-anno completamente al lavoro di fotografi fondando lo studio “Diane & Allan Arbus” che si occuperà principalmente di moda.

Insieme Diane e Allan faranno conoscenze molto rilevanti, come ad esempio Robert Frank e Stanley Kubrick, e uno dei loro scatti verrà esposto nella mostra “The family of man” curata da Edward Steichen. Tuttavia, i due collaboreranno solo fino al 1956, due anni prima del loro divorzio.

Figura fondamentale per la Arbus sarà la fotografa Lisette Model, che proponeva una fotografia realistica e di impegno sociologico, la quale per un paio d’anni sarà la sua insegnante. Grazie a lei, Diane riuscirà a superare la timidezza e a dedicarsi finalmente ai soggetti che realmente le interessano e che preferisce.

 

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Transgender,nudisti, ermafroditi: i soggetti privilegiati da Diane sono persone al limite di quella che viene definita “normalità” e, di conseguenza, ai margini della società che lei stessa definirà “freaks”. Diane racconta la commedia umana e la sua pochezza con immagini dirette, schiette e spesso crude, svelando la volgarità e la dozzinalità della società americana di quegli anni. Riesce a catturare la vera essenza dei soggetti che ritrae mettendo in evidenza sì gli aspetti grotteschi che li caratterizzano, ma anche i sentimenti che li muovono ottenendo scatti privi di edulcorazione, tuttavia fondati su una forte intimità ed un legame intenso tra il soggetto e il fotografo e, di conseguenza, tra il soggetto e il fruitore.

“For me the subject of a picture is always more important than the picture. And more complicated”

La prima pubblicazione della Arbus consiste in sei scatti sulla rivista Es-quire nel 1960. L’anno seguente Diane pubblicherà su Harper’s Bazaar provocando alcune disdette immediate dell’abbonamento alla rivista a causa dei soggetti inusuali e molto forti.

Le reazioni negative e di sdegno nei confronti degli scatti della fotografa non si limiteranno a questo episodio; quando nel 1965 il MOMA presentarà tre scatti della Arbus nella mostra “Acquisizioni recenti” il pubblico rimarrà talmente interdetto che molte fotografie dovranno essere pulite dagli sputi degli spettatori. Tuttavia, nel 1967 il MOMA esporrà altri trenta scatti di Diane nella mostra “New Documents” insieme a lavori di Gerry Winogrand e Lee Friedlander.

Quest’ultima esposizione ebbe un enorme successo, sebbene fu accompagnata da feroci polemiche che portarono la Arbus ad essere etichettata come “Fotografa di mostri” soffrendo di conseguenza di acute crisi depressive.

Sarà proprio la depressione e le crescenti responsabilità frutto della fama a portarla al suicidio nel luglio 1971.

Nonostante la morte improvvisa, il lavoro della Arbus non verrà dimenticato; i suoi scatti coraggiosi e sfrontati colpiranno ogni fruitore poiché, a prescindere dalla natura della reazione, è impossibile rimanere impassibili di fronte alla rappresentazione concreta della propria realtà. In particolare, il regista Stanley Kubrick avrà talmente a cuore la fotografa e la sua opera da volerla omaggiare inserendo una citazione dello scatto “Identical Twins” (1967) all’interno della pellicola “Shining” (1980).

Di: Maddalena Bellasio e Rachele Coppola

 

Ralph Eugene Meatyard:

Visionarietà, Miraggio, Mistero, questi e altri mille e più aggettivi per descrivere la fotografia di Ralph Eugene Meatyard, un fotografo che va oltre i confini, che non si perde nella foresta invalicabile della moda e della contemporaneità e, senza guardare in faccia nessuno, si spinge oltre ogni limite immaginabile e crea qualcosa di assolutamente unico e sincero.

La storia prende piede negli USA degli anni 60’, quando per tutto il paese spopolava la Street Photography, un genere assolutamente immediato che “ruba” gli scatti così come sono nella realtà e cerca di coglierne il dinamismo e le forme. All’interno di questo background culturale consolidato, Meatyard si appassiona alle arti visive e soprattutto alla letteratura dalle quali apprende e si lega ad un principio di sfuggevolezza, di labile certezza, un senso di precarietà che lo formerà e lo appassionerà fino a ricercarlo nei suoi meticolosi scatti, che tutto sono meno che rubati.

Ed è proprio questo principio che lo consacra nella storia della fotografia: Meatyard mette in scena degli ambienti con all’interno delle figure delle quali è assolutamente irriconoscibile il volto a causa dell’utilizzo di tempi lunghi di esposizione.

Al di là della trovata tecnica in realtà Meatyard vuole esprimere un significato molto profondo, il fotografo mette in scena la precarietà della vita, ma anche dei rapporti umani, delle conoscenze, dei linguaggi e in tutto questo cerca di raggiungere l’anima dei soggetti che sta riprendendo, un alone sfocato che magari può essere ben più espressivo del viso che c’era un attimo prima.

Di fronte alle proprie fotografie risuona calma la voce di Meatyard: ”Ok, adesso lascia stare tutta quella frenesia, lascia perdere la tua vita, i tuoi problemi e guarda qui, vieni in questo mondo che io stesso ho creato e fermati un secondo a ragionare, qual è la qualità della tua vita dei tuoi sentimenti? Ti senti davvero vicino alle persone che ami? O senti che anche loro come tutte le persone cattive della terra non hanno niente da darti che sono in realtà VUOTE come queste persone che vedi in questa fotografia?”

 

Meatyard vuole bucare la carta fotografica e cercare di produrre qualcosa che non si può vedere, a differenza dei suoi colleghi della Street Photography, Meatyard orchestrava ogni suo scatto nei minimi particolari, metteva ogni singolo gesto dei suoi attori come lui voleva e sistemava le luci in modo da creare la suggestione migliore. Eppure rispetto ai suoi colleghi molte volte Meatyard riusciva a creare qualcosa di incredibilmente puro e molto più fresco degli “scatti rubati”, perché lasciando degli spazi vuoti spesso lasciava riempire quegli spazi al suo pubblico in modo quasi inconsapevole, tramite l’immaginazione.

Quasi non è più fotografia, è qualcosa di diverso, lascia molto spazio allo spettatore, è come se dicesse: “Io non voglio farti vedere quello che voglio io, ma ti chiedo: cosa vedi tu?”.

Di: Raffaello Parodi e Francesco Balbi

Un ringraziamento alla professoressa dei ragazzi: Camilla Ambrosoli

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